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BETTI VAN DER NOOT, DINO

GOD SAVE THE EARTH

Barcode: 8015948090268 / Cat: SAM9026 / 1 CD / Label: SAM PRODUCTIONS

Giusto due anni fa scrivevo alcune note di copertina – precedute da altre di Ira Gitler, come sempre minuziose e accurate – per l’ultimo cd di Dino Betti, The Humming Cloud. Era il settimo disco, orchestrale come gli altri, che lui firmava dal 1977 in poi, e mi arrischiavo a dire che era il più bello e originale di tutti. Non prevedevo però che The Humming Cloud avrebbe dato all’autore la vittoria come compositore nel Top Jazz 2008 della rivista mensile Musica Jazz, addirittura distanziando il secondo classificato di vari anni luce; qualcosa di simile era accaduto nel 1987 quando il disco di Betti They Cannot Know vinse il premio “Arrigo Polillo” quale migliore disco dell’anno. Bene, adesso dico la stessa cosa per God Save the Earth, non per scaramanzia o per una lusinga che fra me e Dino non avrebbe senso. Anzi, esito un poco a sostenere che questo sia “più bello” dell’ultimo, istituendo un confronto comunque discutibile. Si tratta di due prodotti artistici assai diversi, che a mio avviso riflettono stati d’animo e momenti autobiografici differenti. Forse il cd di cui parlo adesso è più sulle mie corde, la qual cosa può giustificare la nuova preferenza. Vediamo. Betti mi dice che con God Save the Earth ha inteso prima di tutto emozionare, il che è logico e naturale. E chiedere poi – prosegue – la massima creatività ai musicisti, in modo che le parti scritte e le parti improvvisate siano un tutto unico; suggerire ai solisti percorsi precisi, ma senza limitare la loro creatività, anzi cercando di offrire nuove strade da esplorare; scrivere avendo in mente le personalità cui affidare l’esecuzione, in modo che sia il sound dell’orchestra, sia il modo di suonare dei singoli musicisti rappresentino un tutto coerente e (se possibile) originale; dare maggiore spazio, rispetto agli album precedenti, agli assoli degli improvvisatori. Ogni cosa, come si vede, è detta con chiarezza esemplare, e l’ultima è particolarmente evidente e significativa per chi compila queste note. Rileggo ciò che scrivevo per The Humming Cloud e trovo un punto fondamentale per il paragone – improprio finché si vuole, ma sento di doverlo continuare – con God Save the Earth. Eccolo: “La musica non è facile [questa invece è più immediata e fruibile, ndr], nel senso che prende l’ascoltatore nella sua essenza e lo scuote e lo spossa com’è accaduto a me (alla presenza dell’autore), a me che certo non sono alle prime armi e sono abbastanza vaccinato contro simili reazioni”. Era quasi un invito all’ascolto insieme con altri, che non vale invece per i sei nuovi splendidi brani. Ognuno di essi, da “God Save the Earth” a “City Mornings”, assaporati possibilmente senza soluzioni di continuità – durano poco più di un’ora – va ascoltato in solitudine, meglio se in cuffia, in perfetta intimità con la musica. Qui la melodia prevale, e c’è nostalgia, c’è malinconia, c’è poesia e c’è percezione lirica e senso etico. Chi ascolta dev’essere in attenta sintonia, nota per nota. E non deve trascurare le parole dei due brani appena citati. Il primo: “In the garden green / there’s a voice / and the voice / is nothing but this earth… She says / she can’t breathe / and we see too late / that something must be done / be done. (Nel verde del giardino / c’è una voce / e la voce / non è altro che questa terra…Dice / che non riesce a respirare / e noi ci accorgiamo troppo tardi / che qualcosa deve essere fatto al più presto / deve essere fatto.)”. E il secondo: “Mornings / where the night sounds still linger / where dead pasts haunt the hours / where no love’s left around… (Mattine / in cui indugiano i suoni della notte / in cui gli spettri del passato tormentano le ore / in cui non c’è più traccia di amore...)”. È appena il caso di sottolineare quanto, anche per un semplice accenno, il testo dell’uno rimandi a quello dell’altro. I solisti ai quali sono stati suggeriti “percorsi precisi, ma senza limitare la loro creatività” sono in parte confermati dal disco precedente. Andrebbero citati tutti, tanta è la loro partecipazione creativa al progetto musicale di Betti, del quale sono profondamente convinti: si immagini che io l’abbia fatto. Ma qualcuno esige una menzione speciale: così il polistrumentista Vincenzo Zitello che si è meritato anche quella del compositore-direttore, e Tiziano Tononi e Beppe Caruso e Alberto Tacchini, quest’ultimo soprattutto per l’incantevole conclusione pianistica di “City Mornings”. Infine, last but not least, metto sugli scudi il mio vecchio e “difficile” amico Sandro Cerino, specie per il lungo assolo di flauto del secondo brano, “In the Beginning Was Beauty”. Ha contribuito insieme con Dino a farmi ricordare che in principio era la bellezza. L’ho sempre creduto anch’io. Franco Fayenz







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