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MCRAE, CARMEN

CARMEN MCRAE LIVE AT UMBRIA JAZZ

Barcode: 8015948010037 / Cat: EUJ1003 / 1 CD / Label: EGEA

Carmen, una grande voce del jazz fotografata in un disco dal vivo ad Umbria Jazz nel 1990 edito dalla EGEA, in tutta la sua forza comunicativa, in tutto il suo splendore animale, con quella provocante bruttezza che la rendeva imminente sul palco, come una regina africana. E’ stata la voce che meglio ha interpretato la struggente evidenza cartesiana del Jazz. Questa donna ha sofferto per amore e si sente, anche nei momenti più pimpanti del suo repertorio un sapore agrodolce si insinua nell’ugola, la sua voce caramellata ci invita ad abbassare gli occhi e a fissare il parquet pensando alla teatralità del quotidiano, o semplicemente ad un amore perduto tra le pieghe delle mani.
Un disco dal vivo, postumo (la cantante si è spenta a 72 anni nel 1994 dopo una crisi respiratoria) che è quasi una dichiarazione di intenti nei confronti della canzone americana, da Thelonious Monk a Billy Joel, registrato a Perugia ai giardini del Frontone, davanti a una platea che si sventola addosso programmi e si guarda attorno per capire se è davvero lei a cantare, con quell’aria serena da maîtresse stagionata che guarda i musicisti di sbieco seduta su di uno sgabello che pare un trono.
E pensare che Carmen McRae non amava le grandi platee, si infastidiva facilmente anche nei piccoli club quando in duo con il chitarrista Joe Pass cercava l’intimità del dialogo. Un rapporto sempre difficile, il suo, con il diaframma del pubblico, quel pubblico che difficilmente avrebbe compreso “the state of the blues”, quella condizione nirvanica di rabbia, amore, melanconia, quella che nel Rinascimento si attribuiva ai nati sotto Saturno e che nel Novecento abbiamo delegato alla cultura afroamericana perché forma primitiva, quasi archetipica del nostro disagio.
Suddently, improvvisamente, così si apre il disco, ci si scalda un po’ con la musica di Monk, si guarda oltre la siepe del giardino tentando di percepire l’atmosfera, i primi tre stacchi all’unisono e capisci cosa ti piace di lei: quella regale, sfrontata, svogliatezza, quel biascicare le frasi, impastarsele in bocca come gomma, gettarsele alle spalle come un Martini di troppo. Subito, tanto per chiarire che non c’è nulla da stare allegri, aggancia una delle più struggenti ballate del dopoguerra, lo fa accennando una risata da camallo: I’m glad there is you, timido inno ad un amore che può ricordare la sua vicenda sentimentale con Kenny Clarke: il batterista che diede forma ritmica al be bop e che poi fuggì in Francia ebbro di Bordeaux e gambe lunghe: nel suo primo disco, Carmen, un po’ per amore, un po’ per civetteria si fece chiamare Miss Clarke, era il 1946.
This Masquerade, questa finzione canta Carmen solfeggiando per aria con le mani e disegnando per aria i suoi acquerelli di vocalizzi ed ogni tanto le scappa il pennello di mano, meravigliose sbavature, salti di ottava, tremoli, miagolii, la sua voce da contralto le metteva anche queste follie.
Il gruppo che la accompagna nonostante lei si sforzi a presentarlo in pompa magna non è alla sua altezza, ma questo deve essere un motivo in più per ascoltare questo disco: la sua voce emerge con più chiarezza, vicino ad un contrabbasso troppo presente e poco intonato, un batterista duro come la pelle dei suoi tamburi ed un piano che non gradisce l’umido del luglio umbro. Niente che Carmen non possa aggiustare, siede al piano, non deve dimostrare nulla, che con i tasti neri e bianchi ha filtrato per una vita, spolpa un vecchio brano di Ellington e infarcisce di piccoli infarti ritmici, blocca il tempo, lo riprende per il collo, chiude sussurrante, “that’s life”.
Sì, è proprio questa la vita.
Cosa ci fa una canzone di Billie Joel a chiudere il disco? Oggi lo capiremmo di più, si intitola New York State of Mind, ed è l’esatta trasposizione sonora di quel capolavoro che è Manhattan di Woody Allen: Billie Joel l’ha cantata di recente pochi giorni dopo l’undici settembre, una versione memorabile, luccicante, come elmi dei pompieri.
A Carmen piaceva questo piccolo inno sulla sua città, da anni lo metteva un po’ ovunque. Le piaceva sentirsi parte di quella strampalata comunità di hipster che fa lo struscio nel Villas, guarda i pullman argentati che passano veloci rifrangendo luce e occhi altrui lungo un ponte.
Questa stratificazione di ricordi, questo macabro affastellarsi di posteriorità: difficile togliere questo disco dal nostro lettore cd.






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